Statiche o proattive, così le aziende reagiscono a Covid-19
Non tutte le aziende hanno reagito in modo uguale alla crisi economica legata alla pandemia. La capacità di reazione è dipesa molto dalle caratteristiche delle singole organizzazioni, elementi che possono essere analizzati. Ad aiutarci nel compito è l’indagine effettuata da Istat tra il 23 ottobre e il 16 novembre su un milione di imprese. Aziende con almeno 3 addetti per un totale complessivo di oltre 12 milioni di dipendenti. Si tratta di circa il 90% del valore aggiunto e i tre quarti dell’occupazione di manifatturiero e servizi. L’Istituto ha suddiviso la reazione delle imprese italiane davanti alla crisi Covid in 5 categorie cercando di restituire un’istantanea del sistema produttivo del Paese.
Categoria statiche
Il primo gruppo è quello delle imprese «statiche in crisi». Parliamo del 28,6% del campione e si tratta di realtà in grave difficoltà molto prima di covid-19. Tra le caratteristiche: scarsa propensione all’export, bassa produttività del lavoro e valore aggiunto. In media hanno 6,5 addetti. Sono quelle aziende che «non hanno sviluppato nuovi prodotti o processi, sono rimaste spiazzate dagli eventi e si sono limitate a usufruire dei sussidi». Fanno parte di comparti come l’accoglienza, la ristorazione, l’assistenza sanitaria non residenziale, i giochi e i servizi alla persona come le palestre e i centri benessere. Ci sono poi le imprese «statiche resilienti» che sono la maggioranza relativa ovvero il 35,5%. In media danno lavoro a 8,3 addetti. La scolarizzazione della forza lavoro non è molto migliore delle imprese rosse ma costo del lavoro, produttività e valore aggiunto sono nettamente superiori. La propensione all'export è leggermente migliore rispetto alle colleghe della categoria precedente. Sono aziende dotate di una certa solidità che non hanno vissuto emergenze né sul versante della liquidità né in termini finanziari. Operano in ambiti impattati marginalmente dalla pandemia: nell’alimentare, nell’immobiliare, nei servizi all’edilizia, nel commercio all’ingrosso, nella distribuzione farmaceutica e nei servizi informatici.
Le proattive
Ci sono anche le «proattive in sofferenza». Sono il 10,7% e sono medie aziende da 11,2 addetti. Non spiccano per costo del lavoro, produttività e valore aggiunto ma hanno buona scolarità della forza lavoro e una media propensione ad esportare. Tra le realtà colpite dal lockdown hanno incassato e poi reagito, ideando strategie nuove per stare a galla. Il che significa nuovi prodotti, canali di vendita, riorganizzazione dei processi, partnership solide lungo la filiera. Sono aziende del turismo e della ristorazione che, ad esempio, hanno puntato su delivery e servizi digitali. L’Istat segnala anche le «proattive in espansione», il 19,4% del campione. «In media hanno circa 20 dipendenti, con un costo del lavoro medio di 42.388 euro, una produttività elevata e ottimo valore aggiunto», si legge nel report. I settori sono Ict, farmaceutico, assicurazioni, elettronica, servizi postali, chimica, macchinari, metalli e servizi finanziari. Per far fronte al Covid hanno investito soprattutto nella trasformazione digitale.
Chiudono il report le «proattive avanzate», le prime della classe. Rappresentano il 5,8% del campione, hanno una fortissima propensione all’export (circa il 20%) e un’occupazione media di 42,7 addetti. Staccano tutte le altre categorie quanto a investimenti nel digitale e smart working. Sono concentrate in alcuni settori tra cui la viticoltura, l’editoria, il Pharma. In più sono imprese attente al pianeta che investono in sostenibilità e, quindi, nel futuro di tutti.