Contratto di lavoro a tempo determinato o indeterminato, questo è il dilemma
Con il brindisi di fine anno del 2016 sono terminati gli incentivi, di cui si è sentito parecchio parlare negli ultimi due anni, finalizzati a rivitalizzare il più possibile il contratto di lavoro a tempo indeterminato. Oggi più che mai l’imprenditore, in fase di assunzione di uno o più lavoratori dipendenti, è tenuto a valutare con estrema prudenza e consapevolezza quale sia la fattispecie contrattuale più congeniale. Ci possono essere sorprese, soprattutto per piccole aziende con meno di 15 dipendenti.
Negli ultimi due anni, l’aspettativa che il contratto di lavoro a tempo indeterminato prendesse il largo era forte. Tale previsione era conseguente al nuovo regime di tutela “depotenziata” del lavoratore licenziato, introdotta con il Jobs Act, abbinato agli esoneri contributivi, dapprima triennali e poi biennali. Tale scenario avrebbe permesso alle aziende di coniugare l’esigenza di nuova forza lavoro con un buon risparmio in termini di costi.
Il condizionale è d’obbligo. Alla luce dei recenti dati elaborati dall’osservatorio Inps sul precariato si evince come nel triennio 2014-2016 le aziende del nostro Paese abbiano continuato a dimostrare “fedeltà” al contratto di lavoro a tempo determinato. Tali dati rivelano anche come la scelta di assumere invece attraverso il contratto di lavoro a tempo indeterminato sia stata stimolata quasi esclusivamente dalla presenza di sgravi e agevolazioni. Con gli sgravi arrivati oramai al capolinea l’avvio di contratti a tempo indeterminato, presumibilmente, sarà destinato a rallentare ulteriormente.
Tutto ciò dimostra come ancora oggi il contratto a tempo indeterminato, seppur il legislatore stia tentando di individuarlo come l’istituto di riferimento del lavoro subordinato, continua ad essere visto dalle nostre imprese con scetticismo e con estremo timore. Appare esserci una convinzione che si tratti di una scelta troppo poco “snella” rispetto a quella di un rapporto a termine ….. Ma siamo davvero sicuri che sia così?
Prescindendo da singole e specifiche casistiche, tenterò di enfatizzare gli aspetti più salienti relativi alla flessibilità ed ai costi tipici sia del contratto a tempo determinato che a tempo indeterminato.
Contratto di lavoro: un confronto pratico tra le due modalità
Negli ultimi anni si sono susseguiti una serie di provvedimenti legislativi, prima con la L.92/2012 (Riforma Fornero), poi con il cosiddetto Jobs Act. Questi hanno introdotto importanti novità sia riguardo il contratto a tempo determinato, divenuto a-causale e del quale è stata aumentata la durata massima a 36 mesi, sia per ciò che concerne il contratto a tempo indeterminato, con l’introduzione delle “tutele crescenti”.
Qui di seguito un esempio così da poter cogliere al meglio gli aspetti salienti dell’una e dell’altra fattispecie contrattuale, giungendo quindi ad una comparazione di massima tra di esse.
L’azienda Rossi S.p.a intende assumere il Sig. Bianchi ma riserva dei dubbi se utilizzare il contratto a tempo indeterminato o a tempo determinato. Sicuramente una delle considerazioni principali ed immediate sarà quella relativa ai costi. Da questo punto di vista la scelta di un contratto a termine risulterebbe meno conveniente poiché, a parità di altre condizioni, la società registrerebbe un costo aggiuntivo, rappresentato dal contributo addizionale Naspi del 1.40%, tipico ed esclusivo dei rapporti a tempo determinato.
Ulteriore aspetto su cui Rossi S.p.a. si troverà a ragionare è relativo ad alcuni elementi di flessibilità tipici delle due fattispecie contrattuali.
Partiamo dal contratto a tempo determinato. A differenza del passato, tale soluzione contrattuale può essere instaurata senza che sussista alcuna motivazione specifica, pertanto in via del tutto a-causale. Tale previsione, introdotta nel 2012 dalla Riforma Fornero, rappresenta senz’altro una condizione che concede al tempo determinato un forte appeal. In merito alla durata, esiste il termine massimo dei 36 mesi, comprensivi di un massimo di 5 proroghe e di eventuali rinnovi. Devono peraltro esser rispettati precisi intervalli temporali, pari a 10 o a 20 giorni di stop, tra un contratto e l’altro in relazione alla durata del primo rapporto a termine. Non si deve inoltre dimenticare che esistono altresì dei limiti relativi al numero di contratti a termine che l’azienda può stipulare, i quali non possono superare la soglia del 20% dei lavoratori a tempo indeterminato presenti in azienda. In aggiunta a ciò, va considerato che, qualora il lavoratore a termine presti la propria attività per più di 6 mesi, questo ultimo maturerà un diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato effettuate dall’azienda nei successivi 12 mesi, con riferimento alle mansioni già espletate in esecuzione del contratto a termine.
Altro aspetto rilevante può essere poi quello del computo dei dipendenti ai fini della quota di riserva ai sensi della Legge 68/1999 sulle assunzioni obbligatorie dei lavoratori disabili: ciascun lavoratore a tempo determinato superiore ai 6 mesi dovrà infatti essere computato come unità intera, essendo così sostanzialmente equiparato a un rapporto indeterminato.
Alla luce di questa rapidissima e non certamente esaustiva analisi è evidente che, da un lato, il contratto a tempo determinato oggi risulta certamente di facilissimo utilizzo, grazie alla non più obbligatoria indicazione della causale giustificativa dell’apposizione del termine. Tuttavia, dall'altro lato, oltre ad avere un onere contributivo aggiuntivo rispetto al tempo indeterminato, il contratto a tempo determinato presenta comunque dei vincoli piuttosto rigidi che se non rispettati, in alcuni casi comporta la trasformazione del contratto a termine in un rapporto a tempo indeterminato.
Aspetto che mi preme approfondire e che sicuramente sarebbe oggetto di valutazione da parte della società Rossi S.p.a. è la normativa che regolamenta la cessazione del rapporto.
A tal proposito non si può non rilevare come i rapporti di lavoro a tempo indeterminato abbiano in questi anni avuto un’evoluzione che li ha resi molto meno rigidi e vincolanti rispetto al passato e che ha senza dubbio amplificato i margini di manovra delle imprese. La nascita del contratto di lavoro a tutele crescenti ha da questo punto di vista rappresentato un punto di svolta importante, allineando l’Italia a quella che è la normativa giuslavorista di gran parte dei Paesi europei. Tali nuove discipline muovono dalla volontà di rendere più agevole l’eventuale processo di uscita del lavoratore dall’impresa, introducendo quindi un nuovo regime sanzionatorio in caso di licenziamenti illegittimi. in questo modo, sebbene con alcune esclusioni, è stata superata la disciplina prevista dall’art.18 dello Statuto dei lavoratori imperniata sulla procedura di reintegrazione del lavoratore.
Nell’ambito di tale novità legislativa, in via del tutto semplicistica ed approssimativa si può affermare che nella maggior parte dei casi un licenziamento considerato illegittimo comporterà al datore di lavoro il pagamento di un’indennità risarcitoria pari ad un minimo di 4 ed un massimo di 24 mensilità, con un graduale e predeterminato innalzamento della stessa in funzione dell’anzianità di servizio del lavoratore. Per le piccole imprese con meno di 15 dipendenti, la forbice risarcitoria si stanzia invece tra un minimo di 2 ed un massimo di 6 mensilità.
Tornando invece al contratto a tempo determinato, bisogna innanzitutto considerare il principio generale per cui il recesso anticipato nei rapporti a termine sia in generale consentito solo ove sussista una giusta causa, ovvero un motivo di gravità tale da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro. Al di fuori di tale circostanza, a meno di una eventuale risoluzione consensuale tra le parti, il datore di lavoro che intenda recedere dal contratto prima della sua naturale scadenza dovrà riconoscere al lavoratore un risarcimento pari alle retribuzioni che a quest’ultimo sarebbero spettate fino alla scadenza prevista dal contratto.
Tutto ciò ad ulteriore testimonianza di come in realtà il contratto di lavoro a tempo determinato non sia sempre così flessibile e vantaggioso, ancor di più per le piccole aziende con meno di 15 dipendenti.
Considerando le caratteristiche fino ad ora analizzate, ritengo importante sottolineare il concetto per cui la maggiore o minore convenienza di tale tipologia contrattuale, rispetto a quella a tempo indeterminato, debba comunque esser valutata anche in relazione alla durata stessa dei rapporti a tempo determinato. Per un’azienda con meno di 15 dipendenti un contratto di lavoro a termine che eccede i 6 mesi risulta sicuramente essere, sotto un profilo di rischio, di costi e di flessibilità, più complesso ed impegnativo rispetto sia ad uno stesso contratto di lavoro a termine ma con durata inferiore, ma anche ad un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti.
Da qui la necessità di riflettere sulla scelta della fattispecie contrattuale da utilizzare, basandosi su una valutazione che contempli molteplici aspetti e che tenga quindi conto sia delle caratteristiche e delle esigenze dell’impresa che delle peculiarità del rapporto di lavoro che si intende instaurare con riferimento alla sua disciplina e ai possibili risvolti che essa potrebbe avere.
A questo punto….il dilemma richiamato nel titolo può essere risolto?