Brevetti e marchi tutelati a sostegno del vantaggio competitivo: un cambio di mentalità?
L’imprenditoria italiana è talvolta poco attenta al grande valore che i marchi e i brevetti rappresentano, senza adottare le strategie più opportune per proteggere tali “valori”. Questo atteggiamento sta gradualmente cambiando, come dimostrano i dati sui brevetti registrati negli ultimi anni in Italia.
Il fondatore di Amazon, Jeff Bezos, ha idee molto chiare su quale sia il valore di un marchio:
“Un marchio per una società è come la reputazione di una persona. Puoi guadagnare reputazione, cercando di fare bene le cose difficili”
Il marchio è ciò che siamo ed identifica ciò che la gente vede in noi. In ambito commerciale, il marchio è il mezzo che ha come fine ultimo quello di far riconoscere ed identificare un “prodotto od un servizio”, distinguendoli da quelli della concorrenza. Si capisce quindi molto bene come il marchio sia una fonte importante di ricchezza, che deve essere ben sfruttata ed anche ben protetta.
Più in generale, per tutte le aziende che operano in un libero mercato, il marchio ha:
- Una funzione distintiva: identificando la provenienza di un prodotto;
- Una funzione pubblicitaria: e quindi di collettore di clientela;
- Una funzione di garanzia qualitativa: il cliente è infatti portato a ritenere che prodotti o servizi distinti con il medesimo marchio presentino le stesse qualità.
Risulta, pertanto, fondamentale attivare una corretta valutazione e valorizzazione del proprio marchio così come una corretta protezione del medesimo, che deve essere perseguita sia in via preventiva che durante la fase patologica.
L’altro elemento chiave per la tutela dell’unicità della propria offerta di prodotti e servizi sono i brevetti ed anche in questo caso possiamo citare un grandissimo inventore ed imprenditore: Bill Gates, il quale afferma
“Che sia Google, Apple o il software libero, abbiamo avversari fantastici che ci tengono allerta”
Il mercato è fatto di competizione e tutto ciò che aiuta l’imprenditore in questa vera e propria lotta deve essere sfruttato al massimo; i brevetti sono certamente un elemento chiave di questa competizione.
Non per niente, il brevetto è un indicatore molto popolare tra gli economisti dell’innovazione, che lo utilizzano per misurare la competitività tecnologica. In buona sostanza gli economisti, per valutare la competitività a livello di impresa, industria e paese, sono soliti analizzare il numero dei brevetti registrati in un determinato arco temporale.
Purtroppo, i dati degli ultimi anni hanno evidenziato per l’Italia un fortissimo ritardo. Tra il 1996 e il 2001 il tasso di crescita medio annuo del numero dei brevetti italiani, pur essendo ragguardevole (7,3%), è stato significativamente più basso di quello degli altri paesi, tra i quali spicca il 10,6% della Germania.
I dati di anni più recenti continuavano a descrivere un’Italia rimasta indietro rispetto agli sforzi dei suoi partner e competitor europei: nel 2013, anno in cui la domanda di protezione brevettuale in Europa ha raggiunto il suo picco per il quarto anno consecutivo, tanto che a livello mondiale il 35% dei brevetti provengono da paesi della UE, mentre il 24% proviene dagli Stati Uniti, il 20% dal Giappone, l'8% dalla Cina e il 6% dalla Corea del Sud, l’Italia è uscita dalla top ten dei Paesi depositari di brevetti in Europa e le domande di brevetti italiani sono calate del 2,7%. Considerando poi il rapporto tra numero di abitanti e numero dei brevetti depositati, il dato che ne emerge è ancora più sconfortante: la prima nazione è la Svizzera mentre l’Italia si piazza solo al 18° posto.
Tuttavia forse qualcosa sta cambiando. Nel 2015 infatti è stato registrato un dato più confortante per l’Italia che grazie a un tasso di crescita dei brevetti del 9% (doppio rispetto alla media Europea) ha mostrato un’inversione di tendenza che ha suscitato nel presidente dell’Epo Benoit Battistelli parole di stima e ottimismo verso il nostro paese. A dare impulso a questo picco sono state principalmente le regioni italiane del Nord come la Lombardia, il Veneto e l’Emilia Romagna, grazie a settori come l’informatica (+76%), la comunicazione digitale (+59%) e la farmaceutica (+54%) dove si concentrano gran parte delle start-up innovative.
Perché l’Italia brevetta così poco? Ecco alcune possibili spiegazioni:
- La modesta capacità del nostro paese di realizzare un numero elevato di invenzioni e scoperte sufficientemente utili, nuove e non ovvie da poter essere brevettate;
- L’esiguità del numero di soggetti che partecipano attivamente alla realizzazione dell’innovazione nazionale;
- La non crucialità dell’attività brevettuale per un sistema produttivo come quello italiano dominato da imprese medio/piccole.
In molti hanno sostenuto e sostengono che in Italia vi sia bassa innovazione e bassa creatività, ma personalmente non condivido questa chiave di lettura. Gli italiani più che innovativi sono ingegnosi (del resto per vivere e lavorare in un paese come questo l’ingegno è fondamentale).
Le nostre fabbriche, le nostre industrie, le nostre PMI, non fanno ricerca di base (è infatti molto raro che una PMI investa in centri studi, od in università, e quindi nella Ricerca & Sviluppo come essa è comunemente intesa a livello globale).
Gli italiani, piuttosto, ingegnano attraverso una creatività applicata direttamente al prodotto. È la nostra metodologia di innovazione. Non sentiamo e non percepiamo l’innovazione come tale, ma come una soluzione operativa. L’Italia continua ad essere uno dei paesi tra i più creativi del mondo, ma ci manca la cultura dell’innovazione ed è questo che ci fa retrocedere nelle classifiche mondiali.
Gli Italiani sanno molto bene che quello che afferma Bill Gates è giusto : “Che sia Google, Apple o il software libero, abbiamo avversari fantastici che ci tengono allerta". Sappiamo anche noi che dobbiamo stare allerta e che dobbiamo inventare qualcosa tutti i giorni per continuare ad essere sul mercato, ma commettiamo l’errore di non brevettare le nostre soluzioni.
L’imprenditoria italiana non brevetta perché ritiene tale procedura un costo, superfluo o comunque non proporzionato ai benefici che ne derivano. L’Italiano ritiene più opportuno fare che proteggere; ritiene che il suo fare, lo farà stare sempre un passo avanti ai competitor e che quindi non vale la pena investire tempo e denaro in attività di protezione delle proprie idee.
Lo stesso errore viene commesso in tema di segni distintivi: quante aziende non tutelano il proprio brand, il proprio marchio, ritenendolo inutile e costoso, per poi avere successive amare sorprese?
In conclusione ritengo che l’imprenditoria italiana, che si è sempre distinta per grandissima innovazione e capacità di operare nel mercato, debba scoprirsi un po’ più attenta al grande valore che i marchi ed i brevetti rappresentano, adottando le più opportune strategie al fine di proteggere tali “valori”, al contempo facendoli fruttare il più possibile.