Contratto subordinato a tutele crescenti: facciamo chiarezza
A seguito dell’introduzione del Jobs Act e del contratto a tutele crescenti si applicheranno, per un periodo di transizione non breve, 3 discipline diverse per regolare l’uscita di personale dipendente. Segnaliamo alcuni punti fermi, in particolare per il licenziamento per giusta causa e l’offerta conciliativa.
“Flessibilità” è ormai la parola chiave che pervade il mondo del lavoro, poggiato su incertezze economiche e settoriali. Con il Jobs Act il legislatore, riformando interamente il mercato del lavoro, ha deciso di soddisfare l’esigenza di flessibilità nella fase di cessazione del rapporto di lavoro, mediante l’introduzione, con il D. Lgs. n. 23/2015, del contratto a tutele crescenti, consistente in un nuovo regime di tutela, più affievolito rispetto al passato, per i casi di provvedimento espulsivo illegittimo. Nel sistema del mercato del lavoro dipinto dal Jobs Act, a tale maggiore flessibilità in uscita è legato indissolubilmente un irrigidimento del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, esplicitamente definito come contratto “comune” di lavoro, rispetto al quale le altre forme contrattuali (fortemente limitate nella loro applicazione) rappresentano necessariamente un’eccezione.
La forza dirompente del contratto a tutele crescenti consiste in due elementi:
1. Innanzitutto, per la prima volta, viene esplicitamente previsto che la reintegrazione del lavoratore a seguito di licenziamento, deve risultare un’eccezione e non più la regola;
2. In secondo luogo, viene meno la totale discrezionalità del giudice nella valutazione dei fatti. Il sistema prevede, infatti, un risarcimento a favore del lavoratore predeterminato e calcolato sulla base dell’anzianità aziendale maturata.
Mediante l’applicazione di tali presupposti il percorso di uscita del lavoratore è reso inevitabilmente più snello e più facilmente oggetto di pianificazione da parte del datore di lavoro, soprattutto da un punto di vista economico e di costi.
A chi si applica la disciplina del contratto a tutele crescenti?
Al momento, risultano coesistere varie discipline, in funzione della data di assunzione del dipendente e della dimensione dell’azienda:
1. il Contratto a tutele crescenti con il suo doppio binario previsto a seconda che l’azienda computi più o meno di 15 dipendenti, per i lavoratori assunti dopo il 07 Marzo 2015;
2. La Riforma Fornero per le aziende con più di 15 dipendenti, per i lavoratori assunti prima del 07 Marzo 2015;
3. L’art. 8 della L. n. 604/1966 per le aziende con meno di 15 dipendenti, per i lavoratori assunti prima del 07 Marzo 2015.
Il contratto a tutele crescenti in caso di licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale
Indipendentemente dalla dimensione aziendale è prevista l’applicazione della tutela più ampia a favore del lavoratore che consiste nella dichiarazione di nullità da parte del giudice del licenziamento e nella reintegra del lavoratore. A ciò si aggiunge la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno patito dal lavoratore. Il giudice stabilisce un’indennità, soggetta a contribuzione, commisurata all’ultima retribuzione di riferimento del Tfr, per il periodo intercorrente dal giorno del licenziamento al giorno dell’effettiva reintegra, dedotti gli eventuali redditi percepiti da altri datori di lavoro nello stesso periodo . In ogni caso il risarcimento non può essere inferiore alle 5 mensilità.
Il contratto a tutele crescenti e il licenziamento per giustificato motivo soggettivo, oggettivo, nonché per giusta causa
Solo nel caso in cui sia direttamente dimostrata l’insussistenza del fatto contestato, è prevista per le aziende che computano più di 15 dipendenti la reintegra del lavoratore corredata da un’indennità risarcitoria, soggetta a contribuzione, pari al massimo a 12 mensilità, commisurata all’ultima retribuzione per il calcolo del Tfr, dedotti gli eventuali redditi percepiti da altri datori di lavoro nello stesso periodo.
La forte novità consiste nel fatto che in tutti gli altri casi, il rapporto di lavoro è dichiarato cessato alla data del recesso comunicato dal datore di lavoro. Non viene prevista in alcun modo la reintegra del lavoratore. Il datore di lavoro al momento del licenziamento del lavoratore ha perfettamente idea dell’importo che sarà tenuto ad erogare in caso di impugnazione del licenziamento e, ovviamente, condanna da parte del giudice: l’indennità da corrispondere, , non soggetta a contribuzione, sarà pari a 2 mensilità dell’ultima retribuzione per il calcolo del Tfr per ogni anno di servizio, in misura non inferiore a 4 e non superiore a 24 mensilità.
Per quanto riguarda le aziende di piccole dimensioni, che occupano meno di 15 dipendenti, non è mai prevista la reintegrazione del lavoratore, inoltre l’importo in caso di licenziamento illegittimo è dimezzato e non può superare il limite delle 6 mensilità
Offerta conciliativa
Di notevole rilievo, inoltre, è la possibilità, introdotta dall’art. 6 del D. Lgs. n. 23/2015 dell’offerta conciliativa. Il datore di lavoro può offrire al lavoratore, entro 60 giorni, in sede protetta, un importo non soggetto ad IRPEF e nemmeno a contribuzione previdenziale, di ammontare pari a una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, ed in misura comunque non inferiore a 2 e non superiore a 18 mensilità, mediante consegna al lavoratore di un assegno circolare. Nel caso di datore di lavoro con meno di 15 dipendenti, l’importo dell’indennità è dimezzato e non può superare il limite delle 6 mensilità. L’effetto dell’accettazione della proposta di conciliazione è l’estinzione del rapporto di lavoro dalla data di recesso e la rinuncia all’impugnazione da parte del lavoratore.
In tal modo, con un importo già predeterminato dalla norma, inferiore a quello che si avrebbe andando in giudizio, il rapporto di lavoro viene chiuso senza ulteriori possibilità di impugnazione del licenziamento.